Siamo i ragazzi della classe IV D del Liceo classico "G. D'Annunzio" (Pescara).
Partecipiamo a questo concorso perché abbiamo un interesse comune : quello di dar voce alle nostre opinioni sui principi della Legalità e della Libertà. I nostri lavori sono coordinati dalla prof.ssa Annapaola Giansante e con lei aderiamo ai progetti presenti a scuola (incontri con studiosi e referenti delle forze armate civili).

domenica 17 aprile 2011

Quando ad emigrare erano gli italiani...


Nel 1975, primo anno in cui gli ingressi di stranieri nel nostro Paese hanno superato le uscite di cittadini italiani, si è chiuso un ciclo ultrasecolare, durante il quale l'Italia ha inviato all'estero più di 26 milioni di persone, cifra pari a quella della popolazione italiana alla proclamazione del Regno d'Italia nel 1861. Tali dimensioni rendono evidente la centralità del fenomeno dell'emigrazione della sociatà italiana. I movimenti migratori hanno una storia molto antica - legata alle attività agricole e artigianali, alle guerre, alle persecuzioni politiche e religiose - che inizia ben prima dell'Unità d'Italia. Tuttavia, è tra quella data e la Prima Guerra Mondiale che si verifica la prima vera emigrazione di massa, diretta soprattutto verso le Americhe. Intere classi sociali italiane, appartenenti al mondo contadino o al sottoproletario urbano, entrano così a far parte di quei 55 milioni di europei che hanno varcato l'Atlantico nell'Ottocento. Le cause di questa grande emigrazione sono da ricercare in una serie di elementi economico-politici che caratterizzano l'Italia postunitaria, determinando sacche di estrema povertà. Essi sono, in sintesi: la crisi dell'agricoltura, con la conseguente eccedenza di manodopera e il progressivo impoverimento delle popolazioni rurali (sia della montagna, sia del Mezzogiorno); il carico fiscale causato dalle nuove tasse introdotte dal Governo italiano e la piaga dell'usura che affligge il mondo contadino; la graduale scomparsa, soprattutto nel Settentrione, dell'artigianato tradizionale e della manifattura domestica contadina, progressivamente soppiantati dalla produzione industriale. Il vasto flusso migratorio degli italiani verso le Americhe avveniva spesso in condizioni drammatiche fin dal momento del viaggio in nave, effettuato in terza classe e quindi in situazioni di pura sopravvivenza. A questo si aggiungevano, poi, le difficoltà derivanti dalla necessità di inserirsi in società molto diverse da quella di origine per lingua, costumi, tradizioni e cultura, dalla condizione di analfabetismo che quasi sempre li destinava a fare lavori umili, dalle condizioni di sfruttamento con scarsa tutela legislativa e sindacale. La presenza numerosa delle donne all'interno della comunità di immigrati favoriva, tuttavia, l'insediamento e il radicamento di intere famiglie nei Paesi di accoglienza, attraverso un processo comunque lungo, faticoso, spesso doloroso, a volte umiliante: soltanto i figli, e in molti casi i nipoti, avrebbero infine raggiunto la piena integrazione nella nuova società. L'emigrazione è continuata anche nel Novecento: in totale oltre 20 milioni di uomini e 7 di donne hanno lasciato l'Italia e il numero dei loro discendenti - i nostri connazionali all'estero - si aggira attualmente intorno ai 60 milioni. Nonostante si sia tentato di dipingere con toni enfatici e celebrativi questo esodo verso altri Paesi, esaltando le qualità di cittadini e di lavoratori degli italiani all'estero, rimane la realtà storica del giudizio dei Paesi d'accoglienza nei confronti degli immigrati italiani - rozzi e analfabeti, violenti e litigiosi, sfaccendati e imbroglioni, mafiosi e sfruttatori delle donne - per cui, spesso, "italiano" era sinonimo di "miserabile". Negli Stati Uniti i nostri connazionali erano considerati degli "stranieri straccioni" e guardati con sospetto come mafiosi o pericolosi anarchici: nel 1890 undici italiani, accusati di aver ucciso il capo della polizia di New Orleans, furono assolti dal tribunale ma vennero linciati dalla popolazione inferocita; alcuni anni dopo, i due anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti furono condannati a morte per un delitto, anche se della loro consapevolezza non c'erano prove certe. Gli italiani erano soggetti a violenze fisiche di massa in tutti i continenti, vittime di accessi di xenofobia collettiva: chiamati "l'orda oliva", erano considerati una "tribù di schiavi stupidi", con le facce da assassini, praticanti una religione "pagana" come il cattolicesimo, dediti all'alcol e sporchi come "maiali", ladri e dinamitardi. Si tratta di stereotipi che incontriamo anche nella letteratura e nel cinema Hollywoodiano dell'epoca, che dipingono spesso un ritartto degli italiani a metà tra il delinquentello di quartiere e il gangster vero e proprio. Certo la mafia era una dolorosa realtà americana, ma di essa non facevano parte solo gli italiani: c'erano anche gli irlandesi, gli ebrei russi, i cinesi. Nei ghetti delle metropoli americane la violenza si respira nell'aria accanto alla miseria, al degrado ambientale, all'ignoranza e all'emarginazione. Ci sono voluti il sacrificio, l'impegno, la serietà di intere generazioni di italiani per abbattere pregiudizi e odi razziali, per conquistare posti di rilievo nei settori dell'economia e della politica, del cinema e della musica, della ricerca e degli studi universitari, prima che i nostri connazionali all'estero non fossero più considerati una "orda di barbari puzzolenti".  
   

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